Azienda sanitaria ingiunta a pagare un ingente somma di risarcimento per presunta malpractise
Per i professionisti della sanità, i medici specialisti, l’incappare in situazioni in cui sono obbligati a pagare danni al paziente in seguito a una decisione dell’autorità giudiziaria, può accadere quando meno te l’aspetti: e tale situazione provoca nel professionista, che sa di avere la coscienza pulita e si sente ingiustamente accusato, non solo un danno economico e lavorativo rilevante, ma anche un disagio profondo a livello umano e nell’ambito stesso dell’esercizio quotidiano della professione medica: viene a mancare la serenità nel fare il proprio lavoro, perché il rischio di essere incolpati per qualcosa da non imputarsi alle proprie responsabilità incombe sempre e a propria insaputa.
Fatti di questo genere avvengono spesso, nel mondo sanitario, in particolare, quando al paziente, dopo aver subito un intervento in sala operatoria, resta in qualche modo e in maniera grave compromesso lo stato di salute.
Tali casi, riconducibili alla categoria del malpractise, tuttavia, soltanto apparentemente, talvolta, sono inclusi nel contesto della malasanità; in realtà, infatti, si verifica, nella fattispecie, che non viene riscontrata, dopo un’attenta e scrupolosa indagine, a riguardo della responsabilità dei medici, sempre fuori discussione, nessuna attinenza e relazione in merito.
Un episodio, risalente al 2017, avvenuto in una regione dell’Italia settentrionale, ha coinvolto un medico e altri due suoi colleghi, insieme alla azienda sanitaria, per cui e dentro cui erano operativi, in una sorta di circolo vizioso della realtà giudiziaria, esponendo gli imputati a un’incresciosa conseguenza.
E senza che essi stessi, i medici coinvolti, ne fossero informati o fossero stati interpellati, anzi senza nemmeno attendere l’esito del CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio).
Nonostante il sostegno fornito dallo studio legale, in sostanza, è successo che l’azienda sanitaria ha dovuto pagare 300 mila euro di risarcimento a un paziente, e la Corte dei Conti, dunque, si è rivalsa sui medici.
Dopo quattro anni di processo, i medici, che si sono visti imputare questa condanna, ossia un cardiochirurgo, due suoi colleghi e il dirigente sanitario, non si sarebbero mai aspettato una cosa del genere, dal momento che le indagini effettuate, secondo la prassi consueta, sul loro conto e in relazione alla degenza e operazione chirurgica del paziente, cui sono sopravvenute successivamente complicazioni, non hanno assolutamente fatto emergere nulla che potesse riferirsi alla responsabilità dei professionisti che hanno assistito il paziente.
La somma pagata, consegnata all’autorità in contanti, era solo in minima parte coperta dall’assicurazione, ed è stato richiesto un contributo anche a un fondo delle strutture ospedaliere regionali.
La cosa davvero sconcertante, però, è che i medici, i diretti interessati e i loro avvocati, non sono stati né informati, né interpellati, e il CTU previsto, nemmeno mai considerato. Il paziente, che ha chiesto di essere risarcito per le complicazioni intercorse in seguito a intervento operatorio, aveva ricevuto questa diagnosi dal suo cardiochirurgo: una valvola cardiaca seriamente compromessa.
Occorreva o ripararla o sostituirla. Si era poi decisa la sostituzione, dato che la riparazione non era possibile. Il paziente, inoltre, aveva scelto di essere operato con bioprotesi, un tipo di intervento che dura di meno rispetto alla protesi meccanica, ma non richiede l’assunzione di farmaci anticoagulanti a vita. Durante l’operazione, fatta in mininvasiva, si è verificato un sanguinamento, del quale il cardiochirurgo non era riuscito a localizzarne l’origine. Sottoposto, dunque, in terapia intensiva, il sanguinamento è continuato.
Ciò ha determinato il mutamento dell’operazione da mininvasiva a invasiva classica.
Il cardiochirurgo, poi, aveva convocato il chirurgo toracico, reperibile nel turno di notte, affinché potesse constatare o meno se il sanguinamento fosse localizzabile nell’ilo polmonare.
Riscontrato che in quella zona non vi era traccia di sanguinamento, si è proceduto alla politrasfusione, con conseguente lunga degenza in terapia intensiva. Il paziente, sottoposto a ventilazione meccanica, dopo una quindicina di giorni, era stato trasferito in riabilitazione in modo che fosse poi dimesso per aver ripreso a respirare normalmente.
Ma sette mesi dopo accade qualcos’altro: infezione alle vie urinarie, con vegetazione sulla valvola. Una volta asportate tali vegetazioni, provocando comunque embolizzazione alle gambe, si verifica dopo poco tempo un’ulteriore complicazione: la valvola risulta danneggiata. Si provvede alla sostituzione, stavolta, con una protesi meccanica. In seguito a quanto il paziente aveva passato, dopo aver subito due interventi per sostituire la valvola, quest’ultimo chiede il risarcimento danni, dovuti agli effetti collaterali relativi alle conseguenze dell’intervento, secondo la sua interpretazione dei fatti.
Come prevede la Legge Gelli-Bianco: si attiva l’accertamento tecnico preventivo. Sarebbe emerso che non si erano verificati problemi nell’effettuazione dell’intervento. Ecco che accade, però, l’impensabile: due giorni prima che l’accertamento fosse posto in essere, in quanto il giudice aveva nominato periti predisposti al CTU, le parti in causa decidono di pagare l’ingente somma.
Come sia stato possibile che questo avvenisse, senza consentire ai medici di dimostrare, ascoltandoli e con il CTU, che il loro comportamento professionale era stato esemplare e corretto e non suscettibile di responsabilità alcuna a riguardo delle complicanze successive, sopravvenute al paziente dopo l’operazione?
I medici non erano stati interpellati a riguardo, non si era atteso l’esito dell’accertamento peritale, ma il Ministero della Salute, su richiesta del Pubblico Ministero, forniva una consulenza medica, dalla quale emergevano azioni di responsabilità da parte dei medici coinvolti, ma definite in modo molto superficiale e generico.
Questi ultimi, infine, legalmente tutelati, sono stati finalmente ascoltati, fiduciosi che la loro deposizione facesse archiviare il caso. Invece, era stato disposta la citazione in giudizio. Dopo l’udienza si era preso atto delle procedure di difesa, secondo cui la relazione ministeriale si rivelava generica e non si era riscontrato alcun legame tra la condotta dei medici e i danni subiti dal paziente, e, in particolare, prima della Legge Gelli-Bianco, la quale enuncia che se il medico non è coinvolto direttamente nella transazione, non gli può essere imposta, quando già la giurisprudenza contabile ha più volte affermato che la transazione non si può esigere dal medico, laddove risulti «manifestamente illogica o antieconomica».
Trascorsi venti giorni, il giudice aveva dato ragione ai medici coinvolti e ai loro avvocati. Ciò che ha sorpreso tutti è stata questa specifica anomalia procedurale: la Corte dei Conti ha imposto il risarcimento dei danni ai medici, senza interpellarli e consentire loro di difendersi, anche tramite la consuetudine del CTU. Ora, però, la sentenza del giudice, favorevole ai medici, è stata impugnata.
In qualità di Risk Manager mi occupo dell’analisi e della valutazione di questo tipo di rischi, prendendo in considerazione gli avventi avversi già avvenuti come punta dell’iceberg per individuare le azioni di miglioramento da intraprendere. Inoltre con MB Assicurazioni, individuo soluzioni per la riduzione e il controllo del rischio sotto il profilo della gestione finanziaria, di attività di formazione in merito alla gestione dei danni e delle relative conseguenze e a come mettere in atto processi per prevenire o mitigare gli stessi.
Agnese Cremaschi Covid-19
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