dei malati terminali di cancro si è tenuta a Sidney l’estate scorsa
Una donna australiana, Emily Lahey, poco più che trentenne, colpita dal 2019 da una rara forma di tumore incurabile(un carcinoma della NUT, una mutazione rara e aggressiva con poche opzioni di trattamento e una prognosi tipica di sei-nove mesi), ha realizzato lo scorso 17 agosto all’interno del centro culturale Carriageworks di Sidney, avvalendosi anche della collaborazione dell’Australian Cancer Research Foundation (ACRF, attiva dal 1984 nella prevenzione, diagnosi e trattamento del cancro, un’organizzazione benefica che ha già distribuito più di 184 milioni di dollari agli istituti di ricerca in tutta l’Australia), un progetto artistico di grande spessore umano e medico: ha voluto condividere con il pubblico in sala la sua esperienza di malata terminale a causa di un cancro.

Lo spettacolo, dal titolo “Time to Live” (organizzato da due specialisti del settore: Gibson e Lennon) si prefiggeva lo scopo di sensibilizzare e rendere consapevole ancora di più la gente sulle malattie incurabili e sull’importanza della ricerca affinché un giorno ogni paziente affetto da tumore incurabile possa finalmente guarire, e dunque sulla necessità vitale di raccogliere fondi per la ricerca.Queste le parole di Emily in un’intervista: «Nutro la speranza che “Time to Live” mostri l’importanza di continuare a finanziare questi sforzi di ricerca, per dare alle persone come me più tempo».E ancora: «Nella rappresentazione ho voluto descrivere il tempo rimanente non come un orologio che si esaurisce, ma come un dono prezioso da non sprecare».

Su un palcoscenico, allestito con una sola panchina per sedersi, sovrastato da un enorme orologio digitale che impietoso scandisce il tempo che passa, la donna rende partecipe il pubblico del suo dolore, della sua esperienza di vita lacerata dalla malattia, dal trattamento (cicli di chemio, radioterapia e immunoterapia)cui è costretta a sottoporsi, dall’ansia di una vita penalizzata da una patologia genetica incurabile. E questo non solo rivolgendosi direttamente agli spettatori, ma anche facendo loro vedere un breve filmato che la ritrae nell’intimo e nel quotidiano alle prese con il suo dolore.
L’aspetto più coinvolgente della rappresentazione teatrale è quello di vedere i singoli spettatori invitati a parlare apertamente anch’essi,chi ne era affetto, del loro grave e doloroso problema di salute, formulando domande, esternando confidenze, manifestando impressioni, anche sfogandosi con un pianto e sentendosi commossi dentro,in modo da condividere il tema proposto per circa tre minuti con il pubblico presente e la protagonista (che non è un’attrice, ma una malata terminale in carne e ossa).

Emily ha così scambiato vicendevolmente con ognuno degli spettatori confidenze, umori, sofferenze, speranze, tutte quelle emozioni, sensazioni, momenti di vita che fanno parte della realtà quotidiana di una malata terminale. Quella sera il pubblico era composto di una trentina di spettatori, condividendo ognuno il dramma di Emily, sia chi l’avesse vissuto o lo stesse vivendo in prima persona, sia chi limitandosi ad ascoltare e solidarizzare.
Oltre all’importanza che merita la ricerca, durante lo spettacolo si è dato anche massima rilevanza ai rapporti umani, al bisogno di rendere preziosi i momenti che restano da vivere al malato terminale, cercando di trasmettergli gioia, amore, rispetto, gentilezza, comprensione, aiuto, insomma, tutti quei valori e sentimenti positivi, compassionevoli, squisitamente umani, che pure hanno la loro determinante efficacia sul piano relazionale, esistenziale e medico, nonostante il muto, indifferente e veloce trascorrere del tempo, che un timer, posto ben in alto in evidenza, modula inesorabile sulla scena minuto dopo minuto, secondo dopo secondo.
